Chiara Maci debutta nella narrativa con «Quelle Due»: un viaggio delicato e intenso nel rapporto madre/figlia

C’è un momento nella vita in cui, per andare avanti, bisogna tornare indietro. È quello che succede ad Adele, protagonista di «Quelle due», il primo romanzo di Chiara Maci, nota anche come @chiarainpentola, volto amatissimo della cucina e della tv, che si svela nella veste inedita di narratrice di anime, sentimenti e memorie. Il libro, pubblicato da Mondadori, rappresenta uno dei debutti narrativi più intensi della stagione, e l'autrice arriva in Puglia per tre presentazioni nel weekend. Oggi, infatti, sarà ad Altamura all'Antica Tipografia Portoghese (ore 19); domani, sabato 28, a Ostuni, negli spazi di Masseria Valentina in Contrada Molillo per l'anteprima della rassegna Un'Emozione Chiamata Libro; domenica 29 a Nardò in piazza Pio XI nel cartellone del Salento Book Festival.
«Quelle due» si addentra nel tema della monogenitorialità, e pur attingendo dall'esperienza personale di Chiara lascia spazio alla creazione di personaggi vivi, credibili, vicini: «È una libertà che mi sono voluta prendere - racconta l'autrice alla Gazzetta - arriva con l'età e l'esperienza: ci sono periodi in cui sei convinto di fare tutto ciò che ti dicono, poi diventi più sicuro e puoi permetterti qualche lusso personale, come è stato per me prendermi interi giorni chiusa in hotel per dar vita al personaggio di Adele».
Da comunicatrice enogastronomica all'esordio nella narrativa: cosa ha scatenato questa esigenza?
«C'è da dire che io scrivo sempre. Prima un diario, da cui è nato il mio blog, poi libri di cucina, ma sapevo che sarebbe nato anche qualcos'altro, anche se non immaginavo un romanzo, pensavo di non esserne capace. Ho aspettato il momento giusto, prima ho elaborato parte della mia storia, ma volevo trasformarla in qualcosa di diverso e forte, per essere vicina alle tante donne che mi scrivono mail e messaggi raccontandomi le loro situazioni, le loro solitudini, anche in coppia, non sempre si parla di monogenitorialità. E poi non volevo parlare di me stessa, ma abbracciare queste donne con parole che sentissi mie. Da qui nasce il personaggio di Adele, non è stato semplice perché sono sempre stata aderente alla realtà, ma poi ho preso la mano e sono riuscita a inventare. Il personaggio diventa anche uno strumento, puoi mettergli in bocca idee, pensieri...
Il rapporto con chi la segue è molto stretto. Che feedback stanno arrivando dal libro?
«Sono la cosa più bella. Avevo paura di essere giudicata, perché questo libro è un pezzo di cuore a cui sono affezionata, avevo paura di eventuali critiche. E invece l'accoglienza, finora, è stata meravigliosa. Anche negli incontri e nelle presentazioni ho sempre davanti persone commosse, che hanno voglia di condividere le loro storie. Una signora si è avvicinata piangendo disperata e mi confessato: "Prima o poi imparerò ad andare a mangiare da sola al ristorante". Ho capito che la lettura era stata terapeutica».
È un'opera che parla a più generazioni, c'è in mezzo anche la figura della nonna Ada, centrale nella storia. È ispirata a una persona reale?
«No, è totalmente inventata. Ho una nonna molto forte, la mamma di mia mamma, che porta avanti la famiglia, ma invece Ada ho voluto immaginarla. Anche il personaggio di Costanza, l'amica di giovinezza, è una bellissima figura nel libro, ma non ho una persona che rappresenti per me un riferimento in quel modo. Adele alla fine ne ha bisogno perché non le bastano le sue gambe per stare in piedi».
È vero che non è un libro di cucina, ma fra le pagine si parla tanto di cibo, come espediente per raccontare la famiglia...
«Non riesco a raccontare qualcosa senza mettere il cibo in mezzo, fa parte della vita e della storia della persona. Parlo dell'estratto di pomodoro che è il collante di una famiglia, la scusa per tenere i componenti uniti, il cibo non è mai solo un elenco di ingredienti, ma molto di più. Poi mio padre è salentino, mia madre bolognese, io sono cresciuta in Campania, non solo ho mangiato benissimo per tutta la vita, ma ho imparato proprio il valore della tavola, e nel libro quell'estratto di pomodoro unisce e divide. Ancora, quando Mia, la figlia adolescente di Adele, lascia le uova della colazione a metà, è sempre metafora di un'anima spezzata, a metà. Mi è piaciuto dare una connotazione agli alimenti».
Il titolo «Quelle due» richiama l’idea di un’unione madre/figlia quasi inscindibile. Da scrittrice ma anche da genitore, come sente l'evoluzione di questo legame, che inevitabilmente dopo qualche anno cambia forma?
«Alla fine il messaggio del libro è proprio questo: imparare a lasciar andare. L'unione soprattutto nella famiglia italiana è forte, fondamentale, a volte diventa quasi possesso. Eppure la grande maturità del genitore sta nel capire che la storia del figlio non è la propria storia, deve imparare a stare un passo indietro e a osservarlo mentre prende la sua strada. Bisogna lavorare molto su se stessi, ma ci si può arrivare con consapevolezza».
Le piacerebbe che un giorno sua figlia Bianca, che oggi ha 11 anni, leggesse il libro?
«Sì. Ma da brava madre lo lascio lì, quando vorrà lo leggerà, senza forzature. Però alle presentazioni è venuta, ormai le è familiare. Anche mio figlio piccolo vorrebbe leggerlo, è un grande appassionato di libri. Ma, appunto, è ancora piccolo».
Si dice che ogni libro sia un viaggio, e quando il viaggio finisce si torna diversi. Lei in cosa si sente cambiata?
«È stato un percorso catartico, terapeutico, un'evoluzione personale. Scrivendo di Adele ho imparato tante cose anche su di me, sono partita scrivendo cosa di altri e ho pensato: "Ma anche io sono così". Un confronto necessario, e sono sicura di averlo scritto nel momento giusto».
La Gazzetta del Mezzogiorno