Da bestie a eroi: come Donkey Kong incarna il ruolo mutevole delle scimmie nella narrativa
Nel mondo dello spettacolo, le scimmie non vincono quasi mai. Dall'imponente "King Kong" ai minacciosi primati de "Il pianeta delle scimmie", la scimmia è stata rappresentata come una forza caotica, selvaggia e pericolosa. Non è un caso che quando Hollywood ha cercato di parlare della paura dell'altro, dell'istinto, del caos, si sia rivolta alla figura della scimmia. Tuttavia, c'è una notevole eccezione che è riuscita a cambiare questa narrazione. Se la scimmia è tradizionalmente una figura tragica (il gorilla che cade, la scimmia che imita, l'animale che minaccia di avvicinarsi troppo), Donkey Kong è una scimmia affermativa.
Questo personaggio, che ha oscillato per oltre quarant'anni tra antagonismo e tenerezza forzata, riappare oggi con una nuova sensibilità. Alejandro Fernández, coinvolto nello sviluppo di "Donkey Kong Bananza", il prossimo titolo della serie per la console Nintendo Switch 2, sottolinea che "l'evoluzione di Donkey Kong, da antagonista a protagonista, non è solo una questione di personalità, ma anche di immagine". Non si tratta più di abbellire il personaggio, ma di dargli una gamma emotiva più ampia. Occhi espressivi, un sorriso schietto, goffaggine emotiva, tenerezza e potere. Senza rendersene conto, Donkey Kong si sta umanizzando. Secondo Fernández, questo cambiamento è iniziato con la sua apparizione nel film "Super Mario Bros.", che ora verrà trasposto nel videogioco.
Sebbene la distruzione rimanga la meccanica centrale ("sì, Ciuchino rompe ancora le cose", scherza), ora quella forza bruta si intreccia con una narrazione che ruota attorno al suo rapporto con Pauline. "Una specie di 'La Bella e la Bestia'", dice, ma con un contesto sentimentale, "fraterno". Fernández sottolinea che questa evoluzione non risponde solo a cambiamenti tecnici o estetici, ma all'esigenza di dare voce (e contraddizione) a un personaggio che per decenni ha oscillato tra il ruolo della forza bruta e quello della comicità. "È un bravo ragazzo", riassume Fernández, e con quest'ultima parola smantella l'immaginario classico della scimmia aggressiva.
Nel 1981, un gorilla urlò dentro un cabinato arcade giapponese. Prima della storia, il personaggio, ancor prima che gli eroi avessero motivazioni minimamente articolate, appariva come una figura che sapeva solo resistere. Il videogioco si chiamava "Donkey Kong" e, pur portando il suo nome, non era il protagonista, ma la minaccia.
Nel canone ufficiale, veniva chiamato Donkey Kong in modo che il suo nome potesse servire a spiegare il suo comportamento: "Donkey" per la testardaggine; "Kong" per l'inevitabile eredità di King Kong. Ma non lo era nemmeno. Sebbene fosse il cattivo (rapiva Pauline mentre Jumpman, il futuro Mario, cercava di salvarla), Donkey non era del tutto antipatico. Sergio Fernández, direttore della rivista Retrogamer, sa come identificare cosa stesse succedendo a Donkey Kong: "Aveva qualcosa di particolare. Pur essendo il cattivo, molti volevano che vincesse", dice. Quel carisma "strano" è stato la chiave non solo per il successo del gioco, ma per qualcosa di più grande: "Ha aiutato a salvare Nintendo in un momento difficile. E questo gli ha dato così tanta influenza che è finito per essere il protagonista di una saga tutta sua".
Nel corso degli anni, Donkey Kong ha smesso di essere un cattivo. Anzi, è arrivato a incarnare una figura eroica, soprattutto dopo "Donkey Kong Country", che Sergio considera uno dei punti chiave della sua evoluzione: "È stato un salto di qualità e una svolta per l'industria. Visivamente, sembrava un gioco a 32 bit, quando eravamo ancora nell'era dei 16 bit. E in termini di gameplay, era una seria alternativa a "Super Mario " . Fu negli anni '90 che ebbe luogo una sorta di "riabilitazione culturale della scimmia". Un nuovo contratto simbolico tra tecnologia (il videogioco), narrativa (l'eroe platform) e animale (la scimmia come protagonista).
Per comprendere il significato culturale della trasformazione di Donkey Kong, non è sufficiente considerarlo all'interno dell'ecosistema videoludico. È necessario inquadrarlo in una genealogia più ampia: la rappresentazione della scimmia nella storia culturale occidentale. Fin dall'inizio della modernità, i primati hanno occupato un posto particolarmente scomodo nell'immaginario umano: troppo familiari per essere ignorati, eppure abbastanza distinti da essere trasformati in simboli di paura, eccesso o regressione.
In "Tarzan", le scimmie non sono individui, ma parte del paesaggio "selvaggio", elementi che accentuano l'eroismo del protagonista bianco. Tarzan, sebbene allevato dalle scimmie, trionfa perché riesce a domare la propria animalità e a riconnettersi con la sua stirpe aristocratica. Qui, la scimmia è un ostacolo sul cammino della civiltà. Nel cinema, questa alterità scimmiesca diventa spettacolo. "King Kong" è forse il caso più paradigmatico: un gorilla colossale strappato al suo ambiente naturale , portato a New York e infine ucciso in cima all'Empire State Building. Kong non è solo un mostro: è un'allegoria di ciò che accade quando la natura selvaggia entra nel cuore della civiltà.
Come sottolinea l'educatrice cinematografica Sandra Miret, autrice di "Damas, Villanas y Lolitas": "la scimmia è il nostro specchio; noi proveniamo da lei e la usiamo per riflettere tutto il male che è umano". La scimmia nel cinema funge spesso da superficie di proiezione, un alter ego degradato. La sua vicinanza evolutiva, il suo sguardo quasi umano, le sue risate e i suoi pianti ci restituiscono un'immagine che non sempre vogliamo vedere. "C'è una paura dello specchio", osserva, collegandola persino a una profonda paura di "tornare indietro".
Questo è anche il motivo del terrificante hashtag #MonkeyHate, un hashtag che ha resistito alla censura di internet anno dopo anno , con migliaia di utenti che condividono video che mostrano violenza sugli animali. "Ci sono molti studi che affermano che proviamo risentimento verso le scimmie", ricorda Sergio, "ma i videogiochi cercano intenzionalmente una scimmia amichevole". "Ape Scape", "Super Monkey Ball" e la star di questa stagione, Donkey Kong, rientrano tutti nella categoria di quelli accattivanti e, allo stesso modo, evitano di essere travolti da un'ondata di odio.
A questa lettura si aggiunge la dimensione razziale e coloniale della figura della scimmia. Come sottolinea Frantz Fanon in "Pelle nera, maschere bianche", il razzismo occidentale ha "privato i corpi neri della loro umanità animalizzandoli, associandoli simbolicamente al selvaggio, al primitivo o allo scimmiesco". Questo paragone non è né casuale né innocente: è una strategia di disumanizzazione che rimane presente nella cultura visiva contemporanea. Pertanto, Sandra Miret parla di una "visione razzista e colonializzata" che associa la scimmia a qualità negative storicamente attribuite ai neri. "Ecco la tua banana, scimmia", ricorda Miret, come un insulto razzista interiorizzato che vediamo riprodotto in diversi contesti sociali. "Perché è un cattivo? Perché ormai non lo metti nemmeno più in discussione", sostiene.
Non è un caso che in molte di queste storie le scimmie siano il prodotto di esperimenti umani: non nascono mostri, ma lo diventano. È qui che Sandra Miret introduce un altro punto: "Con il veganismo e l'antispecismo, ci rendiamo conto che i selvaggi siamo noi". Le immagini di scimmie in laboratorio, legate a macchine e sottoposte a test crudeli, ci restituiscono quell'aspetto inquietante. Se i film di fantascienza ci hanno mostrato gorilla con i fucili, la realtà ci ha mostrato scienziati con le siringhe.
In tutti questi casi, la scimmia è una figura di radicale alterità: una creatura che assomiglia troppo agli umani per essere neutrale, ma la cui differenza serve a delimitare i confini dell'umano. La scimmia diventa un limite, un monito, uno specchio distorto. Come conclude Miret: "Siamo il nostro peggior nemico. Siamo capaci di creare bombe atomiche, e sembra che ce ne stiamo già rendendo conto". Questa consapevolezza (dolorosa, tardiva, ma sempre più diffusa) ha iniziato a permeare anche le narrazioni culturali che consumiamo.
L'apparizione di Donkey Kong come "scimmia buona" in "Donkey Kong Banana" non è quindi un aneddoto futuro nel mondo dei videogiochi; è un cambiamento culturale. Pur con un aspetto edulcorato, il gorilla riesce a rompere gli schemi rigidi della personalità fissa e impone una reinterpretazione del modo in cui rappresentiamo l'alterità, l'istinto e il non umano. Un Donkey Kong che non sia un cattivo rompe con secoli di rappresentazione in cui la scimmia viene usata per tracciare un confine che, in "Banana", è sfumato. L'animale non è una minaccia, è una possibilità; ciò che un tempo veniva rifiutato ora può suscitare simpatia. Forse un gorilla in bretelle era necessario per ricordarci che anche la bestia più goffa può insegnarci a essere un po' più umani.
ABC.es